Capitolo 28: I criteri della ricompensa finale
Gli Ebrei avevano dimenticato quasi completamente che la gra-
zia di Dio è un dono. I rabbini insegnavano che bisogna meritare
il favore divino e cosi cercavano di guadagnarsi con le opere la
ricompensa del giusto. Il loro culto era intriso di uno spirito avido e
utilitaristico. I discepoli stessi non ne erano del tutto esenti perciò il
Salvatore approfittava di ogni occasione per far loro notare questo
errore. Proprio prima di raccontare la parabola degli operai delle
diverse ore, Gesù ebbe un incontro che gli diede modo di presentare
questa verità.
Mentre era in cammino, un giovane rettore lo raggiunse di corsa
ed inginocchiandosi gli chiese con riverenza: “Maestro buono, che
farò io per ereditare la vita eterna?” (
Marco 10:17
).
Questo rettore si era rivolto a Gesù come ad un venerabile rab-
bino, senza riconoscere in lui il Figlio di Dio, perciò il Salvatore
replicò:
“Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo,
cioè Iddio” (
Marco 10:18
). Come mai mi chiami buono? Dio solo lo
è, e se tu mi definisci cosi, devi accettarmi anche come suo Figlio e
rappresentante.
“Ma se vuoi entrar nella vita”, proseguì Gesù, “osserva i coman-
damenti” (
Matteo 19:17
). Il carattere di Dio si esprime nella sua
legge e chi vuole vivere in armonia con lui deve ispirare ogni suo
atto ai principi di questa legge.
Cristo non sminuisce le esigenze della legge, anzi dice in termini
inequivocabili che l’obbedienza è la condizione della vita eterna,
dunque la medesima condizione alla quale era soggetto Adamo pri-
ma della caduta nel peccato. Il Signore non si attende dagli uomini
di oggi nulla di meno che da Adamo in paradiso: una perfetta obbe-
dienza, una giustizia irreprensibile. Il patto della grazia contiene la
stessa condizione stabilita nel giardino di Eden: l’osservanza della
legge divina che è santa, giusta e buona.
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